Per Marina (ma non per l'ottica) è più importante il processo del risultato

Lo afferma la grande artista Abramovic in mostra sino al 20 gennaio 2019 a Firenze. Una morale centrata anche per l’ottica e l’occhialeria italiana, oggi con il fiato corto nel moltiplicare e nell’esportare il proprio modello d’impresa

Marina è un’amante delle performance. Per separarsi dal suo grande amore e compagno artistico ha camminato lungo tutta la muraglia cinese per incontrarsi con lui a metà strada, salutarlo per l’ultima volta e riprendere il suo cammino. Marina ha una certezza. L’arte non si deve chiudere dentro un libro o un video. Va esportata, come ha fatto a Firenze. E anche se i protagonisti della performance non sono più gli stessi, il processo artistico che sta alla base li rende unici, indipendentemente dal risultato che essi raccolgono rispetto all’originale.
Dall’arte, scuola di vita e di business, all’azienda. Come da definizione sul web, il processo aziendale è un insieme di attività collegate, svolte all'interno dell'azienda, che creano valore trasformando delle risorse (input del processo) in un prodotto finale (output del processo) a valore aggiunto, destinato a un soggetto interno o esterno all'azienda stessa. In soldoni il processo sta alla base della vita di un’impresa come quello di un artista. Quello che spesso manca in Italia all’ottico indipendente rispetto alla catena o al franchising è proprio il processo. L’individualismo del titolare obbliga spesso lo staff a scopiazzare l’originale senza ottenere il valore aggiunto del processo. È una grave mancanza dell’ottico italiano e probabilmente sarà l’anello più debole dove si infilerà l’esperienza della catena per sovrastarlo.
Sono di poco al di sopra dello zero i processi aziendali nel retail dell’ottica in Italia riprodotti all’estero. Io ne conosco due, di positivi. Il primo è piccolo ma significativo. Si chiama Punto Ottico che ha in Domenico Concato la sua “Marina Abramovic”. Domenico da un paesino alle porte di Vicenza, Alte Ceccato, dopo Milano ha aperto due store a New York (Manhattan e Brooklyn) con la soddisfazione di servire clienti come Spike Lee. Il processo di Domenico è semplice. Vendere alla stessa maniera, a Vicenza e a New York, gli stessi occhiali. Un’affermazione che piacerebbe molto ad Arrigo Cipriani, patron dell’Harry’s Bar di Venezia che di processi e di modelli di business se ne intende. Anche Arrigo propone lo stesso risotto con cardi e scampi a Venezia come a Dubai e naturalmente nella Grande Mela.
Il secondo esempio è Nau!, oggi un modello che risponde al suo significato: un'organizzazione che crea, distribuisce e raccoglie il valore. Ci ha ormai abituato ogni mese a un’apertura, non solo in Italia ma anche all’estero, in paesi come l’India o l’Iran. Il processo organizzativo e di vendita oggi travalica qualsiasi “performance” iniziale studiata dai loro fondatori. In sostanza, anche se non è proprio così, la creatura non ha più bisogno dei suoi creatori, come per l’arte di Marina.
Balza all’occhio anche un prossimo esperimento, quello del DaTE che nel 2019 si sdoppierà tra Firenze e Santa Monica, in California. Ciò che non ha fatto prima volutamente il Mido - a differenza invece del Silmo - lo fa il neonato DaTE, peraltro da cinque edizioni con la regia organizzativa dello staff di Mido: esportare il modello e il processo di un evento di eccellenza. Con il beneficio dell’ardore giovanile.
Tuttavia la diffusa mancanza di esportazione di un modello o di un processo, tipica del territorio italico piuttosto che del mondo, è uno dei motivi per cui l’ottica di retail e per certi versi anche l’industria del nostro paese stiano di fatto concludendo la spinta che le ha contraddistinte nei primi anni 80. Morto o accantonato l’artista manca la capacità di riproducibilità tipica di mentalità non latine. Come se il tempo ci mangiasse il riso in testa.
Nicola Di Lernia

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