Il muro (reale) di Berlino è caduto: ma quanti muri (simbolici) rimangono?

“Ciò che noi chiamiamo simbolo è un termine, un nome, o anche una rappresentazione che può essere familiare nella vita di tutti i giorni e che tuttavia possiede connotati specifici oltre al suo significato ovvio e convenzionale (…). Poiché ci sono innumerevoli cose che oltrepassano l’orizzonte della comprensione umana, noi ricorriamo costantemente all’uso di termini simbolici per rappresentare concetti che ci è impossibile definire completamente”. Questo si legge nella prima pagina dell’introduzione de "L’uomo e i suoi simboli", che Carl Gustav Jung termina solo dieci giorni prima di morire, nei pressi di Zurigo nel 1961, e che inserisce nel più generale "Introduzione all’inconscio", scritto a più mani

Il corposo testo, riproposto in italiano da Longanesi nel 1980, intende chiarire il significato e l’origine del simbolo: diffuso in ogni disciplina di studio o scrittura, il simbolo è qualsiasi elemento capace di suscitare un’idea diversa da quella offerta dal suo immediato aspetto sensibile. In questi giorni si ricorda la caduta di quel sistema di fortificazione che cintò Berlino Ovest per 28 anni, dal 1961 all’89: il 9 novembre di trent’anni fa, un giovedì. Quel muro (nella foto), iniziato nell’anno della morte di Jung e della pubblicazione del suo ultimo saggio, impedì nei fatti la libera circolazione dei suoi abitanti ma simbolicamente voleva comunicare molto altro: fu separazione dei popoli, paura e repressione, fu scenario internazionale di confronto e competizione tra blocchi opposti ma anche garanzia di consolidamento dello status quo. Oggi quella cerchia muraria è ridotta a frammenti ma i muri, reali o simbolici, continuano a essere costruiti, anche arrogandosi una presunta paternità del lessico e del sapere, dell’utilizzo di congegni e dispositivi diagnostici o nell’unica disponibilità dell’uso di pannicoli e sopravvesti: sopravvissuti frammenti murari di una cultura datata e refrattaria, progressivamente sempre più inattuale nell’epoca del web.

Sergio Cappa

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