L’intervento, perfettamente riuscito, è stato effettuato dal direttore del reparto di Oculistica del Policlinico Gemelli, Stanislao Rizzo, tra i pionieri di questo tipo di dispositivo: è durato appena due ore e al risveglio il paziente, affetto da una grave forma di retinite pigmentosa che aveva causato la perdita della vista, era già in grado di percepire la luce
Stanislao Rizzo è stato un pioniere negli impianti di retina artificiale: nel 2011 fu, infatti, il primo a impiegare l’Argus, la prima protesi retinica utilizzata in un paziente non vedente. «Questa nuova retina artificiale dovrebbe assicurarci risultati migliori rispetto alle precedenti, essendo dotata di oltre 400 elettrodi, molti più dell’Argus, che ne possedeva 60 - commenta Rizzo in una nota del Gemelli - La retina artificiale per ora è indicata solo per pazienti affetti da retinite pigmentosa negli stadi più avanzati di malattia, cioè persone che hanno perso completamente la vista da entrambi gli occhi, una condizione che interessa circa 1.500 italiani. I criteri di selezione per entrare in questo trial sperimentale sono per ora molto severi e restrittivi».
La nuova retina artificiale, NR600, è stata messa a punto dalla start up Nano Retina, che ha il suo quartier generale a Herzliya, la “Silicon Valley” israeliana, nei pressi di Tel Aviv. «Quello effettuato al Gemelli è il sesto impianto nell’uomo, il primo in Italia, del nuovo device, dopo quelli effettuati lo scorso anno in Israele e in Belgio: i pazienti operati finora hanno un’età dai 59 agli 81 anni. In Europa viene sperimentato all’interno di uno studio clinico multicentrico, che coinvolgerà una ventina di pazienti, mirato a ottenere l’approvazione CE di questa innovativa protesi retinica - spiega il comunicato - NR600 è frutto di oltre un decennio di ricerche: l’impianto, grande come la punta di una matita, 5 mm di diametro per 1 mm di spessore (nella foto, tratta dal sito del Policlinico Gemelli), viene posizionato da un super esperto in chirurgia retinica sopra la superficie della retina e gli elettrodi tridimensionali, dei quali è composto, penetrano tra le cellule retiniche, andando a prendere il posto dei fotorecettori e attivando con i loro impulsi le cellule ganglionari, che trasmettono l’informazione al cervello, facendola viaggiare lungo le vie ottiche».
Per attivare i microelettrodi 3d, il paziente deve indossare degli speciali occhiali che inviano al device un raggio infrarosso, che provvede ad alimentarlo, attraverso un minuscolo impianto fotovoltaico di cui è dotato. Inoltre il software e l’hardware contenuto negli occhiali controllano e modulano gli stimoli luminosi che arrivano agli elettrodi, traducendoli in impulsi elettrici che poi veicoleranno, percorrendo le vie ottiche, l’informazione al cervello. «Nell’ultima fase della retinite pigmentosa i fotorecettori, ossia coni e bastoncelli, sono completamente distrutti, ma alcune cellule, come quelle ganglionari della retina, sopravvivono - conclude nella nota Rizzo - Sono cellule importanti perché trasmettono le informazioni dai fotorecettori al cervello: gli elettrodi 3d sostituiscono, quindi, i fotorecettori, le cellule specializzate che costituiscono la prima parte delle vie ottiche e trasmettono l’informazione alle cellule ganglionari».