Servono nuove scuole o una nuova scuola?

Secondo l’Eurostat, il nostro paese è in fondo alla classifica dei neodiplomati e neolaureati che hanno un lavoro. Nell’ottica questo problema non si pone, tant’è che proliferano le inaugurazioni di strutture formative: l’auspicio è che venga rinnovata anche la didattica, guardando al futuro

“A scuola vanno bene solo i figli di papà. Studiano solo i ragazzi nelle cui case ci sono libri. Vanno al liceo e si laureano solo i figli di coloro che sono andati al liceo. La scuola è classista, ben poco democratica, non fa da ascensore sociale, non è in grado di colmare le diseguaglianze di partenza, non fa che riprodurre privilegi e differenze”.

Questo si legge in apertura del primo capitolo del breve saggio di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi uscito per La Nave di Teseo nel 2021, Il danno scolastico. Un saggio impietoso, ma al contempo un atto d’amore sulla scuola italiana di questi anni, che, con la prova della forza dei numeri, arriva alla conferma: una scuola facile e di bassa qualità allarga il solco fra i ceti sociali. È un grido d’allarme, non il primo, ma più che mai attuale e disperato.

La frequenza obbligatoria e prolungata, la corsa ai diplomi, l’università di massa: specularità differenti di quella medesima dottrina che consiste nella preparazione di studenti orientati al consumo di programmi scolastici e di merci culturali, inebriati dal sottile e discreto fascino dell’omologazione. Anche la strutturazione del profilo degli insegnanti, già vessati da una burocrazia insipida, se preferiti per promuovere una didattica di tipo mercantile, sul modello della trasmissione delle conoscenze utili, licenziano studenti privi di mezzi critici e ancora più esposti al rischio di una mistificazione strumentale delle loro qualità migliori.

L’allora ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Gui, nel 1962 firma la riforma della Scuola Media Unica con il lodevole intento di avviare una lenta ma inarrestabile scolarizzazione di massa e superare la forbice cultura vs mestiere. Dopo più di mezzo secolo la deriva didattica pare riproporre lo schema decisionale: o il liceo o altro. Nel secondo caso l’istituto scelto cadenza una didattica volta a ottimizzare le capacità di adattamento professionale subordinate alle capacità e ai talenti critici.

L’ultimo rapporto Eurostat relativo al 2023 evidenzia che in Italia solo il 67,5% dei giovani tra i 20 e i 34 anni diplomati o laureati nell’ultimo triennio ha trovato lavoro: siamo il fanalino di coda dell’Europa, che vanta un tasso dell’83,5%. Da tempo campagne pubblicitarie invitano invece gli studenti italiani a iscriversi ai corsi di ottica con la garanzia della piena occupazione a breve: eppure la difficoltà di molte scuole di formare una classe nuova ogni inizio d’anno è nota.

Interrogarsi sul tema dell’abbandono scolastico, sulle possibilità d’impiego e anche sulla difficoltà di creare una classe di iscritti da parte delle strutture di nuova apertura sono solo alcuni profili dello stesso scoramento culturale. E nella scuola di un futuro molto prossimo cosa insegneremo? Ci vorremo adeguare alle miracolose possibilità dell’intelligenza artificiale che sembra non avere limiti o proporremo ancora il formulario di Gauss? Ci chineremo rassegnati alle macchine o consiglieremo di studiare le meraviglie del diottro sferico?

Senza un abbinamento convinto e necessario di una didattica critico-umanistica nei corsi professionali si licenzieranno sempre più servomeccanismi di un potente sistema mercantile che tutto sembra fagocitare. L’arrivo dell’AI deve essere accolto e discusso con rispetto perché esserne travolti sarà inevitabile, esserne vittime sarà probabile, ma esserne vincenti sarà possibile.

Sergio Cappa

Formazione