Secondo l’inserto economico de La Repubblica del 16 gennaio scorso, “l’inflazione spinge i prodotti con la marca del distributore”. Di fatto la volontà di chi consuma è mantenere il medesimo volume di merce acquistata a parità di spesa precedente, ma anche di qualità. “Il risultato - sempre secondo il quotidiano - è che nei primi dieci mesi del 2022 la marca del distributore ha ulteriormente rafforzato la propria quota di mercato vedendo crescere sia le vendite a volume (+2,8%) sia ovviamente quelle a valore, mentre l’industria di marca ha lasciato per strada il 2,5% dei volumi e si è dovuta accontentare dell’aumento delle vendite a valore spinte dall’inflazione”.
Interessante è però rilevare, nella spesa degli italiani, cosa oggi si predilige nel carrello. “Mostra un ritrovato apprezzamento, dopo alcuni anni di contrazione, anche il primo prezzo, a dimostrazione della linea di difesa di chi compra”. Nelle abitudini d’acquisto il fresco, con una crescita evidente della componente del peso imposto, e il pet food offrono la migliore performance di crescita a volume. Secondo le stime, oggi la quota della cosiddetta marca del distributore nell’ortofrutta è del 34%, molto al di sopra di quella generale che staziona sul 20%: questo è il principale segnale della fiducia risposta dal consumatore sulla private label. Alimenti freschi e cibo per i nostri compagni animali sono le scelte primarie di una famiglia. I brand qui sembrano brancolare nel buio: hanno creato il patto di fiducia con il consumatore (ricordate “Galbani vuol dire fiducia”?) e oggi le difficoltà economiche e l’inflazione fanno nascere nuovi punti di riferimento che saranno duri a morire. La sintesi dell’articolo citato è lapidaria: “le vendite a valore della marca del distributore sono balzate del 10,1% che si confronta con il ben più contenuto progresso, +4%, dell’intera grande distribuzione organizzata”.
Difficile ma necessario trovare un parallelismo con il nostro retail. Esiste un’offerta, sommersa a livello comunicativo, della marca del distributore anche nell’ottica. Montature e lenti in private label sono presenti in catene e negozi appartenenti a gruppi d’acquisto organizzati: nel momento in cui i listini probabilmente cresceranno anche nel nostro settore, il consumatore potrebbe chiedere più insistentemente la scelta della private label al proprio ottico. Fino a oggi la qualità comunicativa di questo segmento è insufficiente, qualcuno però si sta già attrezzando.
Da questo scenario anche l’industria dell’ottica deve trarre una morale utile per i prossimi tre-cinque anni. Il valore del bene acquistato in futuro corrisponderà sempre di più al volume, cioè alla quantità di bene venduto. Il valore oggi lo decide sempre di più chi compra, non chi vende. Quest’ultimo deve essere serio nel proporre un equilibrio, centrato sul momento storico, tra capacità di spesa, commodity, qualità, sicurezza e, perché no, piacere. L’inflazione è una brutta bestia: gonfia i fatturati, ma la crescita reale è ben diversa. Sebbene il nostro sia ancora un comparto in grado di poter scaricare sui clienti b2b e, successivamente, b2c i maggiori costi di produzione di oggi, esiste pur sempre un punto di rottura che ci auguriamo di non conoscere. La grande distribuzione e la spesa di tutti i giorni ci stanno insegnando anche questo.
Nicola Di Lernia