«Abbiamo sempre lavorato per organizzare momenti di carattere commerciale, per presentare i prodotti e fare networking: oggi abbiamo voluto realizzare un incontro con un approccio culturale, formativo e informativo, per scambiare opinioni su un prodotto e un’industria che tutti noi amiamo», ha detto Giovanni Vitaloni (nella foto principale), presidente di DaTE. Ha preso così vita il workshop di Medd by DaTE, al quale hanno partecipato 180 persone, condotto dal sociologo Francesco Morace, che in una breve premessa ha ricordato alla platea quanto l’occhiale stesso come prodotto sia oggi, nel periodo complicato che dobbiamo affrontare, al centro di tutte le nostre sfide. «È probabilmente l’oggetto di uso quotidiano che contiene più elementi legati al rapporto delicatissimo tra forma e funzione, perché serve e nello stesso tempo caratterizza il nostro modo di proporci al mondo - ha affermato il professionista - Non a caso è sempre stato a cavallo tra moda, estetica, design, ingegneria e scienza dei materiali». Eppure non ha mai vinto un Compasso d’oro. «Forse il vostro mondo ha avuto un eccesso di umiltà nel proporsi fino in fondo come ambito in cui il design, invece, ha un grandissimo ruolo», ha ricordato Morace. Che l’occhiale sia uno degli oggetti più complessi nel rapporto tra forma e funzione è stato ribadito anche da Luciano Galimberti: il presidente dell’Adi ha sottolineato come il design italiano sia caratterizzato da una ricchezza e da una pluralità di linguaggi espressivi accomunati tra loro dalla capacità, unica al mondo, di creare relazioni. «C’è una grande abilità dell’industria di dialogare in maniera aperta e non gerarchica, per poter dare al mercato risposte originali - ha detto Galimberti - Il design è una leva strategica, in Italia questo è stato compreso, c’è un sistema virtuoso solido che riconosce la necessità di relazione, non solo nel rapporto dialogico tra azienda e progettista, ma con diverse discipline».
Passando poi al campo più specificatamente connesso all’occhialeria, ha preso la parola Alain Miklitarian (nella foto in alto, a destra, con Morace), autodefinitosi piuttosto che designer, lunetier. Partito come ottico, ha iniziato in seguito a disegnare montature: questo per lui non significa essere designer, bensì portare avanti una visione tecnica che poi diventa anche estetica. «Gli occhiali sono come la macchina da scrivere per Olivetti, devono unire la tecnica al piacere - ha detto - Progettarli per qualcuno deve essere un dono trasferito in modo generoso, non una sfida personale. Prima di creare bisogna sempre porsi delle domande: per chi sono fatti quegli occhiali, l’età, il sesso, ma è importante conoscere anche la personalità che c’è dietro chi li porterà. La creatività non è mettere insieme linee, curve e forme, ma conoscere la responsabilità del dono che fai a chi indosserà quella montatura. Che non deve diventare una uniforme. Ciò che mi interessa è toccare l’individuo nel suo cuore, capire la sua unicità, proteggere la sua anima e aprirla attraverso gli occhi e quindi continuare in questo processo molto sottile di riconoscimento dell’unicità stessa». Creare un occhiale è un lavoro d’équipe di tutta una catena complessa di professionalità in cui scorrono competenza e fiducia, ha ribadito poi Miklitarian. Per realizzare un prodotto bisogna conoscerne tutte le implicazioni e quasi immedesimarsi in esso: spesso però questo non succede, non sempre c’è un centro d’interesse condiviso, serve un equilibrio. «Oggi si sta correndo il rischio di perdere la capacità di lavorare sui dettagli, che trasformano l’occhiale in un oggetto davvero personale», ha aggiunto. E a livello di produzione ha sottolineato come da 100 anni si fabbrichi sostanzialmente sempre nello stesso modo, non ci sia stata evoluzione in modo consistente. «Nessuno vuole davvero modificare la struttura dell’oggetto o rischiare con cambiamenti più radicali - ha affermato - Gli occhiali di domani dovranno essere completamente diversi, da un secolo non c’è vera innovazione: è il motivo che mi ha spinto a essere qui oggi, spero che le mie parole siano uno stimolo per gli industriali per raccogliere la sfida e andare verso il futuro».
A concludere gli interventi è stato Domenico Concato (nella foto in alto, a destra, con Morace), titolare di Punto Ottico Humaneyes, che ha espresso il punto di vista del retail su come si racconta l’occhiale di ricerca. «I negozi oggi hanno troppe collezioni ed è un problema trasferire al personale la filosofia che hanno dietro - ha affermato - È dunque importante collegare bene il centro ottico all’azienda produttrice». In questo, ha ammesso l’ottico veneto, i sistemi di relazioni come le fiere hanno un ruolo fondamentale, affinché il legame tra chi produce e il venditore finale si rinsaldi. «Le realtà definite di ricerca devono avere un’etica molto alta, intesa come lotta all’obsolescenza, e un impatto sociale e una comunicazione, anche alla filiera, corretti - ha aggiunto - Io ho sempre avuto poche collezioni: quando le mostriamo al cliente le raccontiamo con grande profondità ed è molto più semplice farne trasparire le caratteristiche e il progetto. Il futuro secondo me va sempre più in direzione di poche linee e una identità ben precisa: il negozio così acquista una immagine più elevata, diventa più importante l’insegna e il suo impatto rispetto al prodotto in sé»
N.T.