Anche l’ottica l’avrebbe chiamato coprifuoco?

I tempi sono difficili ma i linguaggi appaiono studiati per amplificare le paure e indirizzare i comportamenti, con l’obiettivo di ridurre il rischio di una seconda chiusura, totale o parziale. Strategia raffinata o cattivo uso delle parole?

Le parole, si sa, sono importanti, pesano come macigni. Occorre misurarle e utilizzarle con la massima attenzione ed esperienza. Soprattutto in ambito sanitario e parasanitario serve o servirebbe un linguaggio “psicologico”, in grado non solo di dire la verità, ma di avvicinare il paziente a una consapevolezza del suo stato per sollecitarlo a prendere delle decisioni. In questi otto mesi abbiamo assistito all’abuso di alcune parole mutuate anche dal vocabolario bellico. Parole come “riconversione industriale” erano tra le più gentili nel periodo di lockdown. Ricordavano le fabbriche dei tempi di guerra che passavano dalla produzione di sveglie ai timer delle bombe a mano. Lo stesso lockdown, di cui forse qualcuno ricorda la più vicina provenienza, quando nel 2001 alla caduta delle Torri Gemelle ci fu la chiusura per tre giorni degli spazi di volo negli Usa, era una parola sconosciuta ma più dolce, con quel “down” inequivocabile come il “game over” del flipper.

Poi la faccenda si è fatta più dura. Si è iniziato a parlare di “quarantena”. In senso figurato accettabile ma errata sul piano del contenuto. L’isolamento da Covid-19 è di 14 giorni, non di 40. Perché allora chiamarla quarantena e non isolamento? Alla fine del lockdown è iniziata la maratona pubblicitaria delle aziende che rassicuravano i clienti con spot che in chiusura offrivano un acquisto in “totale sicurezza”. Una promessa difficilmente mantenibile con il Coronavirus. Come se il costruttore dell’automobile che acquistiamo ci garantisse che non faremo mai incidenti.

Questa giungla di linguaggio nell’estate italiana è andata presto in cantina. L’ottica ha saputo rialzarsi e introdurre protocolli di sicurezza adeguati, tanto che è stata premiata da un pubblico che ha scelto ancora di più la qualità delle soluzioni visive, come a cercare per la prima volta un prodotto difensivo dallo smart working sempre più diffuso o dagli eccessi della digitalizzazione.

Oggi la ricreazione è finita, l’estate è lontana e nel prossimo weekend ritornerà l’ora solare. Per la prima volta hanno introdotto il concetto, più che la parola, di “coprifuoco”, per indurci a riflettere che sarebbe meglio stare a casa quando c’è buio, ovvero già dopo le 17.30. Siamo tornati a un Medioevo dove il coprifuoco indicava lo spegnere con le ceneri la fiamma dei bracieri e delle lampade per prevenire gli incendi. La parola coprifuoco in tempi moderni evoca invece il divieto di circolazione in determinati orari: drammatico nel periodo di guerra, ironico quando a dirlo erano i nostri genitori per forgiarci. Se oggi si parla di coprifuoco si fa un parziale abuso della lingua italiana e della storia, perché il divieto non è solo quello di circolare, ma anche quello di consumare. Tuttavia i confini non sono dati solo dal tempo ma spesso dalla psiche. Nulla vieta alla nostra mente di anticipare il coprifuoco alle prime luci della sera tagliando tutti i consumi, non solo quelli della movida e dei ristoranti, dalle 17.30 in poi.

Augurandomi che un giorno anche la psicologia della parola sia tenuta in considerazione nell’approntare un Dpcm o le ordinanze locali, quali consigli utili dare all’ottica? Rispolverate al meglio il vostro protocollo di sicurezza sanitaria, ridategli vesti adeguate, fate della sanificazione da cliente a cliente un must di rispetto, adottate le parole giuste e misuratele. Valutate in certe situazioni l’orario continuato con una chiusura anticipata alla sera. Oggi l’ottica deve essere sicura e rassicurante per lo scopo che si deve prefiggere: offrire la miglior visione difensiva e protettiva rispetto al momento storico che viviamo. Sembra un paradigma facile, è invece il rebus che tutti noi saremo costretti a risolvere.

Nicola Di Lernia

 

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