“La ricerca della sicurezza è una componente fondamentale della natura umana. Sin dai primi istanti della nostra esistenza tendiamo ad avere una predisposizione innata verso la sicurezza, cercando protezione, stabilità e conforto in ciò che ci circonda”. Questo è l’inizio del sesto capitolo, di 60, del saggio Superare la paura dell’abbandono, uno dei tanti della collana Pensiero Positivo che la casa Independently Pub. pubblica nel 2023.
In poco più di cento pagine il testo esplora la complessità delle emozioni legate alla paura dell'abbandono indicando al contempo un puntuale percorso di guarigione: l’autostima, la fiducia nel futuro e in sé stessi, la resilienza emotiva sono i temi ricorrenti nella diagnosi e nel percorso terapeutico.
Pochi giorni orsono, a Bologna, una tavola rotonda durante il consueto Congresso Interdisciplinare dell’Istituto Zaccagnini ha provato ad analizzare, e non per la prima volta, gli impietosi numeri dell’abbandono scolastico: il parallelismo può apparire empio o azzardato, ma il punto di comunione non è la paura dell’abbandono quanto quella del futuro.
Da sempre, e a maggior ragione in una società complessa, la certezza del futuro possibile funge da forza attrattiva sulla necessità dello studio e dell’impegno scolastico, che prevede investimento di lungo periodo, resilienza emotiva e caparbietà nel percorso scolastico. Ma se il futuro è precarietà, bivio o ambiguità, non funge più da motore retroattivo. E l’iscrizione a un qualsivoglia percorso diventa afflizione e sfiducia.
Come è pensabile dare un senso alla rinuncia e allo zelo, se la società nel suo insieme alletta chiunque al godimento immediato immergendoci nell’ipnosi telematica e televisiva? Perché impegnarsi nello studio diuturno e duraturo, se i capitali si possono vincere giocando in tv o sul web? Perché organizzarsi per un futuro di medio o lungo respiro, se soltanto un ciclo scolastico vive più di una riforma e nemmeno si è certi di come si verrà esaminati alla fine dell’iter? Perché investire nella scuola, se la stessa non appare più decisiva nella formazione adulta? Perché il percorso scolastico sacrifica volentieri ogni riferimento alla pratica educativa, per enfatizzare il principio di prestazione? Perché, infine, impegnarsi a capire come affrontare i problemi visivi delle persone con la propria testa quando una macchina multifunzionale li “risolve” con un bottone?
Queste sono solo alcune delle imbarazzanti perplessità sulle quali ci si deve interrogare se onestamente si vuole rendere manifesto il problema del disimpegno e del disamore degli studenti e non solo. Quando poi il responsabile del dicastero dell’Istruzione e del Merito, a Milano, ha recentemente asserito che a partire dalla scuola elementare (quella che alcuni governi addietro hanno rinominato primaria) nei programmi “c’è troppa roba”, a quale futuro possiamo tendere o sperare per questa professione?
Sergio Cappa