La versione di Fielmann

La chiusura di undici punti vendita della catena pone la domanda se il gruppo tedesco abbia una visione diversa dell’ottica: in Italia, generalmente, un numero così consistente di centri ottici si tiene aperto, al massimo si sposta o si vende in blocco

Quando Fielmann ha attraversato le Alpi per approdare nel nostro paese molti hanno pensato che si sarebbe radicato solo nel nord Italia. Altre voci, anche autorevoli, avevano considerato un’eventuale espansione al centro o addirittura al sud come un azzardo tutto da rivedere, dato che le similitudini tra il mercato tedesco e quello italiano non potevano superare il Po. Il fatto che ciò non sia avvenuto e che Fielmann stesse diventando a tutti gli effetti la catena straniera in Italia stava rivelandosi ai nostri occhi quasi un automatismo dei tempi moderni dell’ottica. Fielmann, tra l’altro, ci aveva abituato ad aperture costanti, a campagne pubblicitarie con un personaggio noto come lo chef Alessandro Borghese e ad adattamenti poco tedeschi e più latini al tessuto del territorio in cui la catena si stanziava. Su questa testata avevo commentato alcune scelte di Fielmann come congeniali al momento. I consigli di Borghese sulle coperture assicurative nella vendita dell’occhiale, ad esempio: secondo le ricerche presentate sin dalla prima edizione del Forum presbiopia, la perdita o la rottura del proprio occhiale rappresentano uno dei principali assilli del cliente finale. In un’intervista dell’aprile 2022 a Corriere Economia il ceo Marc Fielmann parlava dell’Italia come “la grande sfida, impariamo lavorandoci” e la scelta di produzioni made in Italy sulle montature era la risposta a tale apprendimento.

In sostanza il gruppo, dopo una prima fase sul mercato nazionale basata sul feeling e sul format di casa madre, iniziava il periodo di fidanzamento “italico”, tanto che lo stesso ceo affermava, nel medesimo articolo, che “tutti i bonus dei nostri store manager e dei membri del board tengono conto della soddisfazione dei clienti, che oggi supera il 90%. Anche il mio bonus ovviamente. E per questo ogni anno investiamo milioni in analisi di customer care. Perché da questo dipende il nostro successo”.

Per tutte queste ragioni la recente notizia della chiusura di undici negozi, la conseguente uscita di una trentina di dipendenti e la mancanza di una vera spiegazione strategica alla decisione può far pensare ad altro. Che qualcosa nella modernità dell’ottica non funzioni bene come poteva sembrare? Forse le aperture vicino ad altre attività già presenti, peraltro attuata in passato anche da altre catene, non pare oggi la strategia vincente. Forse l’uso degli algoritmi e delle rilevazioni digitali, su cui spesso ci si basa per avviare un nuovo store, soprattutto succursalista, comincia a dare segni di stanchezza. Forse la customer care dichiarata dai vertici dell’insegna non teneva conto di qualcosa, dato che il passaparola è lo strumento più scatenante nell’ottica per il riacquisto proprio o di altri.

In sostanza, dobbiamo ancora una volta ringraziare Fielmann. Ci ha aperto gli occhi. Negli anni 90 un negozio di ottica poteva chiudere solo, a detta degli esperti, perché il suo proprietario dimostrava vizi esagerati nello stile di vita. Oggi i centri ottici possono anche chiudere per un algoritmo che tiene conto di informazioni tali da non incidere sugli acquisti finali. Per alimentare i quali, del resto, non è sufficiente proporre una montatura che assomiglia al suo originale ma ne costa la metà.

Nicola Di Lernia

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