Fase due: di cosa parliamo quando parliamo di normalità

Bloccati in un presente che sembra sempre uguale, in questi giorni ci si interroga con crescente frequenza su come si configurerà l’uscita, non si sa ancora quanto imminente e graduale, dal lockdown, ansiosi di tornare alla vita prima del coronavirus. Una normalità che però sarà bene ripensare sin d’ora, perché assuma un corso diverso nel tentativo di discostarsi da danni ed effetti che fanno tremare le vene ai polsi non meno della pandemia

“L’abbiamo chiamata perché da qualche giorno Arianna ha un po’ di mal di pancia, è sempre debole… il morbo di Gerber è una sindrome infettiva sostenuta da un virus… non ci sono aspettative di tornare a una vita normale… stasera verrete con me e vedrete come lavoro, andrò a vigilare sulla zona che mi hanno dato…”. The Gerber Syndrome: il contagio è un film italiano del genere horror, girato nel 2011 nello stile del falso documentario, con l’intento di rappresentare gli scenari che si presenterebbero al rapido diffondersi di un virus pandemico in Europa. Ben presto il contagio, molto aggressivo, rende inevitabilmente gli esseri umani simili a cadaveri ambulanti, zombie irrecuperabili. Tramite una commistione di quotidiano reale ed elementi surreali, il genere destabilizza le sicurezze acquisite, instillando emozioni e sensazioni di paure ancestrali radicate nell’inconscio collettivo, facendo leva sulle ossessioni e sulle fobie più diffuse. Il Gerber è un fake virus ma il risultato del film è curiosamente profetico. 

In questi giorni sempre più insistentemente ci interroghiamo sulla fase due, con il consueto cabaret di amministratori che tentano di spacciare per ignavia la prudenza dei sanitari, rimpallandosi però la responsabilità di deciderne l’inizio. Adulti con riserva aspettano con ansia il "liberi tutti" per tornare finalmente a impalmarsi in auto ai platani sulle provinciali o ai semafori di città (oltre 170 mila incidenti stradali nel 2018 in Italia), adolescenti da vivaio torneranno malinconicamente ad affiggersi il sabato sera nei rumorosi pollai di tendenza (68 mila ricorsi ai servizi di alcologia nel 2017) e tutti noi allegramente torneremo in coda in tangenziale da mane a sera (80 mila decessi per inquinamento atmosferico nel 2019). Ma serenamente non la chiameremo pandemia e, brindando, ricorderemo quegli oltre ventimila decessi per uno sconosciuto, dal quale nemmeno abbiamo accettato le caramelle. Torneremo alla agognata normalità. Oppure.

Oppure una benefica riflessione ci potrebbe ossessionare sin d’ora, in tempi di lockdown, sulla normalità, dato statistico modificabile da una più saggia prassi, sapiente norma, assennata consuetudine o giudiziosa costumanza che prevede di accettare un cambio d’abito: la spaesata fragilità di questi giorni ci guidi verso una nuova e più lucida responsabilità, accettando biasimo e censure e anche, umilmente, suggerimenti e aiuti.

Sergio Cappa

Professione