“Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio: l’esercito marciava per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera. Muti passaron quella notte i fanti; tacere bisognava e andare avanti. S’udiva intanto dalle amate sponde sommesso e lieve il tripudiar de l’onde”.
Nella notte tra il 23 e il 24 maggio del 1915 l’Italia entra in guerra: è l’occasione per completare il processo di unità nazionale e liberare Trentino e Friuli dall’oppressione austriaca. L’esercito italiano, nella marcia silenziosa verso la frontiera con l’Austria, oltrepassa il Piave, che poeticamente esprime la sua gioia con il tripudio delle onde. Il napoletano Ermete Giovanni Gaeta, che si firma E. A. Mario, nel giugno del 1918 compone La leggenda del Piave, il canto che voleva ricordare la vittoria dell’Italia nel primo conflitto mondiale: il successo fu tale che sostituì la Marcia Reale Sabauda di Giuseppe Gabetti come inno nazionale provvisorio sino al 1944. Sul frontespizio, pubblicato nel settembre 1918, si legge che il Piave “è consacrato alla memoria dei soldati che lo santificarono, agli alleati che lo ammirarono, ai nemici che lo ricorderanno”.
Il 9 giugno 1990 due soci finanziatori danno vita al Museo della Grande Guerra a 3 mila metri, sul tetto della Marmolada, detta senza retorica la Regina delle Alpi. È il museo più alto d’Europa dedicato a questo conflitto: vi si arriva con la funivia da Malga Ciapèla, all’epoca sede dell’ospedale e del presidio del IX corpo d’armata italiano. Nel 2015, in occasione del centenario del conflitto, il comitato scientifico realizza un percorso multisensoriale, che guida il visitatore attraverso l’esperienza, il racconto, le testimonianze degli uomini che hanno combattuto quella guerra a 3 mila metri e oltre: la Marmolada era il fronte principale e nel 1915 il confine Italia-Austria tagliava in diagonale il ghiacciaio.
La Città di Ghiaccio, un reticolo di gallerie e ricoveri scavati nel ghiaccio, irrisoriamente provvisti di comodità, proteggeva i luoghi degli scontri che avvenivano in superficie, i cui effetti sono ancora oggi visibili. Il ghiacciaio, ritirandosi, ha restituito l’esecrabile falcidia della guerra, corpi mutili, vestiti di lana cardata da cura reverente, armi avventizie e malcerte, lettere poetiche ai familiari e anche un elmetto con ancora collegato un occhiale a forma mistilinea, laminato in ferro, con la fessurazione paraschegge (nella foto) che abbiamo conosciuto come occhiale da caccia Inuit contro l’abbagliamento da ghiaccio.
Quando noi, intorpiditi dal benessere, alziamo lo sguardo da quella vetrinetta e osserviamo, fuori, lo spazio sovrano che ha restituito quel corpo, l’inquietudine ci soffoca il pensiero e pare di sentire anche il ghiacciaio mormorare quel lugubre arabesco di suoni d’artiglieria che ha molestato il solenne e regale silenzio. Quell’occhiale povero, destinato allo stesso utilizzo, racconta però una storia diversa.
Sergio Cappa