In un contesto complesso che ci ha colti impreparati sconvolgendo le nostre abitudini e facendoci scoprire indifesi e spauriti, avremo forse l’opportunità di prendere atto della necessità di accettare i limiti posti dalla nostra fragilità, vera forza di una nuova consapevolezza
“Io sono una nullità, non guarirò mai fino alla fine dei miei giorni; la fiamma dell’amore mi ha colpito e brucio senza rimedio; lei è una spina piantata dentro di me, è parte di me ovunque vada e ovunque lei si trovi”. Così parla il protagonista Florentino Ariza della sua “Dea Incoronata”, la bella Fermina Daza, che sarà per tutta la vita la sua ossessione, nel romanzo del Nobel Gabriel Garcia Marquèz L’amore ai tempi del colera, pubblicato nel 1985, e ambientato alla fine dell’Ottocento a Cartagena, in Colombia. Florentino è un uomo malinconico, amante della poesia, austero, all’apparenza timido e con questo romanzo Márquez abbandona il suo stile di impegno di denuncia sociale per una storia atipica, di passione e ottimismo ostinato. Parafrasando il titolo stiamo provando, di questi tempi, una “vita ai tempi del coronavirus”, che sta violentemente squadernando sulle nostre abitudini. Fra le numerose componenti che possono intervenire a rompere gli equilibri in un sistema si annovera anche il processo di fertilizzazione da parte di un altro sistema, come è successo alla radio nel suo rapporto con la stampa, e quest’ultima con il manoscritto. In tempi recenti però non avevamo ancora vissuto un’aggressione da parte di un invisibile, aereo, impercettibile, incorporeo, occulto, sconosciuto nemico di fronte al quale la nostra boriosa fede in un’invincibile immortalità, supportata da una tecnologia informatica che non concede più spazio alla meraviglia, in pochi giorni si è infranta e frantumata. Ci siamo scoperti fragili e indifesi, ansiosi e allarmati, sgomenti e intimiditi, spauriti dalla mancanza di una semplice mascherina di carta assorbente, in codardo abbandono dalla città o in buffo corteo al supermercato. La fragilità è condizione che coinvolge ogni essere vivente, nella storica contrapposizione tra fragilità e forza, e l’uomo è classicamente rappresentato in entrambe le versioni: il modello dell’uomo “forte” che esprime solidità, resistenza fisica, stabilità morale e capacità di sopire le paure e, al contrario, l’uomo “fragile”, segnato da attributi che definiscono in modo negativo i suoi aspetti fisici o caratteriali come ad esempio la predisposizione alle malattie, alla timidezza o alla paura. Ma la fragilità, che non è debolezza, è resiliente perché in grado di combinarsi con la bellezza e con le emozioni, con la percettività sensibile che si confronta con il senso del limite e del mistero, che consente di valutare la misura di sé, per saper dirigere i propri comportamenti sotto la guida della più importante delle virtù, l’umiltà.
Possiamo augurarci che questo bizzarra circostanza di attiva reclusione, che non durerà solo qualche giorno, ci indirizzi verso un aggiornato e novello Umanesimo, prendendo atto non del fallimento della teocrazia pontificia medievale ma della necessità di insegnare ad accettare i nostri fragili limiti, la vera forza di una nuova consapevolezza.