Catherine e Giusi, l’eleganza di due icone

La nostra esperta di moda e costume ricorda le due donne scomparse nei giorni scorsi con alcuni particolari inediti, che mettono in evidenza la semplicità e, al tempo stesso, l’importanza che hanno avuto nel mondo dello spettacolo e della moda

In quegli anni tutte si stiravano i capelli per averli come lei, tutte avrebbero voluto star bene con la frangia come Catherine Spaak. Che, incredibilmente, riusciva a essere molto carina con dei grossi occhiali da vista con montatura nera, che allora nessuna avrebbe voluto portare. Eppure lei con quegli occhiali (nella foto, a sinistra) poteva cantare Perdono, canzone di Gino Paoli arrangiata da Ennio Morricone, diventato il lento più sensuale, che tutte e tutti avrebbero voluto ballare con il ragazzo o la ragazza dei loro sogni.

La prima volta che l’ho incontrata è stato sulla funivia per Plateau Rosa, a Cervinia. Era con Johnny Dorelli, lui, divertente e gran comunicatore, parlava e faceva ridere tutti, lei più in disparte bellissima, anche senza un filo di trucco. Sulla discesa mentre lui si buttava in velocità, da sciatore della domenica come si diceva allora, lei scendeva con un lentissimo “stem christiania” da quasi principiante. Che, comunque, aveva fatto dire al ragazzo con me, buoni sciatori entrambi: “Che stile però!”. Frase che aveva suscitato un po’ di gelosia. L’ho rivista anni dopo a Roma, quando conduceva Harem, per intervistarla. Simpatica, spiritosa, sempre semplice e sempre di classe. Mi aveva raccontato dei suoi rapporti con il figlio Gabriele, allora adolescente. E mi aveva rivelato di come non le piacesse in lui, che frequentava per scelta di Dorelli un esclusivo liceo romano, quell’atteggiamento con cui le chiedeva di non farsi vedere quando lo veniva a prendere. Perché avendo lei un vecchio Maggiolino, si vergognava di fronte ai compagni con mamme su Porsche e Mercedes. Lei, Catherine Spaak che, oltre a essere un mito, di stile ne aveva da vendere. Non solo quando sciava.

Con Giusi Ferrè non ho mai lavorato, anche se spesso ci siamo “sfiorate” nelle redazioni. Ma il ricordo che ho di lei risale a molti anni prima, al liceo milanese Berchet. Ante 68, quando in Italia non era ancora arrivata la minigonna e il british style liberatorio. Si vestiva classico, o almeno le ragazze bene vestivano così, colori non accesi, capi carini ma mai provocanti. Lei, nonostante non avesse un fisico da modella, riusciva a essere sempre perfetta, ma con quel qualcosa in più. Ricordo che con un’amica ci chiedevamo come ci riuscisse. Ma non era tutto. Non era certo la prima della classe, anzi per motivi di salute era spesso assente, eppure i suoi temi erano straordinari, speciali, più degli articoli in realtà che dei temi, tanto da essere apprezzati solo da professori sensibili e aperti e al Berchet ce n’era una. Da trent’anni la incontravo alle sfilate, sempre vestita di nero, spesso con grandi occhiali neri (nella foto, a destra) anche al chiuso o squadrati, piccoli, che incredibilmente si accostavano bene con quei capelli rossi. Un mix che in qualsiasi altra persona sarebbe stato eccentrico e vistoso su di lei era quel qualcosa in più che la rendeva speciale e ci affascinava già al liceo. Perché Giusi della moda era una vera competente. La famosa Buccia di banana su Io Donna, l’ultima delle quali uscita il giorno dopo la sua morte, lo diceva chiaramente. Sapeva spiegare il perché un capo era elegante, adatto o non adatto alla persona. Cosa non da tutti, trattando spesso di abiti super firmati indossati da attrici o donne comunque bellissime. Il Corriere della Sera ha titolato il suo articolo in ricordo L’ultimo graffio. Eppure le sue critiche, acute, argute, forti non colpivano mai la persona. Quasi un’anomalia, in questo mondo, dove colleghe, famose e importanti come lei, si accaniscono, forse inconsapevolmente, su donne giovani e belle.

Luisa Espanet

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