Mesi fa, attraversando il ponte dell’Accademia in fase di rifacimento, ricordavo come per il terzo ponte sul Canal Grande fosse intervenuta silenziosamente a fondo perduto per il suo restauro Luxottica. Ora che in occasione della Regata Storica del 2 settembre quello dell’Accademia viene riaperto totalmente, non mi sento di gioire
L’etimologia della parola ponte ci riporta al concetto del passaggio. Negli oltre cinquant’anni che il Ponte Morandi ha risposto allo scopo di collegare il levante e il ponente di una città così importante e difficile come Genova, nessuno ha messo veramente in discussione la sua dura necessità. Un ponte sopra la testa della gente, a sottolineare che il progresso italiano degli anni 60 non poteva fermarsi davanti a nulla, neppure all’estetica e al pensiero. Un paese che aveva vissuto una guerra tremenda, che l’aveva ridotto all’osso delle sue infrastrutture, non poteva rammaricarsi di chi per cinquant’anni avrebbe vissuto sotto quell’opera. E da par suo il Ponte è come se avesse restituito a quelle persone parte della loro sopportazione: pur di fronte a una tragedia così immensa, le loro case sono state in massima parte risparmiate. Con l’auspicio che dopo il 14 agosto lì sotto non debba più viverci nessuno.
La nascita e la caduta di un ponte sono paradossalmente e allo stesso tempo un “passaggio” dal vecchio al nuovo. Nulla a Genova sarà come prima. Credo neppure in Italia, se non saremo cinici e ciechi. Alla proposta di Autostrade per l’Italia di ricostruire come prima il Ponte Morandi, il cosiddetto “qui e subito” (ma non stiamo certamente parlando del Teatro La Fenice di Venezia, ad esempio), preferisco quella lanciata martedì scorso dall’architetto genovese Renzo Piano. Un ponte che assomigli a un semplice nastro, una striscia d’asfalto che corre su tantissimi pilastri, illuminati di notte come una grande nave attraccata al suo porto, da quarantatré lampioni, tanti a ricordare le vittime del 14 agosto 2018. Spiega Piano che da quel giorno non pensa ad altro che a ricucire. A riparare alla ferita della sua città con garbo, dolcezza e parsimonia, seguendo l’istinto della “grande tartaruga”, come affettuosamente Gino Paoli chiama la sua Genova.
Ripartiamo dalle parole di Renzo Piano. Nel ricordare gli amici dell’ottica che soffriranno ancora per quanto successo a pochi anni dall’alluvione del 2014, chiedo loro quello che ha chiesto l’archistar alla sua gente: facciamo presto ma non in fretta. Non dobbiamo perdere l’occasione di dare a Genova e all’Italia un ponte che rappresenti un passaggio dal passato al futuro che ci meritiamo. Non dobbiamo perdere il senso della bellezza e dell’ingegno che appartiene a noi italiani solo perché abbiamo fretta e riteniamo che non ci sia abbastanza tempo davanti. Facciamocelo caro questo detto, presto ma non in fretta, perché anche l’ottica, dal retail all’industria a tutti, possa ricordare che i miracoli gli umani li fanno giorno per giorno con piccoli gesti ben direzionati. E che sia finito il tempo dei proclami e scatti invece quello del sacrificio comune anche verso chi ne usufruirà, dopo di noi.
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