Il made in Italy al liceo: proponimento serio o pura piaggeria?

L’idea lanciata qualche settimana fa da Giorgia Meloni riapre il dibattito su come una scuola imbalsamata in vecchi schemi possa davvero servire all’industria, al paese e, soprattutto, alla formazione delle nuove generazioni

“La scuola. 28, venerdì. Sì, caro Enrico, lo studio ti è duro, come ti dice tua madre, non ti vedo ancora andare alla scuola con quell'animo risoluto e con quel viso ridente, ch'io vorrei. Tu fai ancora il restìo. Ma senti: pensa un po’ che misera, spregevole cosa sarebbe la tua giornata se tu non andassi a scuola! A mani giunte, a capo a una settimana, domanderesti di ritornarci, roso dalla noia e dalla vergogna, stomacato dei tuoi trastulli e della tua esistenza. Tutti, tutti studiano ora, Enrico mio”. Cuore è un romanzo di formazione scritto dal giornalista Edmondo Alberto Mario De Amicis, sottotenente dell’esercito sabaudo di fine Ottocento. Strutturato a episodi, è un diario fittizio di un alunno della terza elementare di una scuola della Torino della recente Unità d’Italia, nell’anno scolastico 1881-82. I racconti mensili come Il tamburino sardo, La piccola vedetta lombarda o Dagli Appennini alle Ande sono da tempo patrimonio collettivo.

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, presente all’ultimo Vinitaly di Verona, nell’incontro con alcuni studenti degli istituti agrari premiati da lei per una competizione vinta, che l’applaudivano, ha sostenuto che “non c’è niente di più legato alla nostra cultura di quello che questi ragazzi sono in grado di studiare e portare avanti: è il motivo per il quale ragioniamo di un liceo del Made in Italy, la possibilità di fare un percorso che spieghi il legame che esiste tra la nostra cultura e la nostra identità, che è la cosa più preziosa che abbiamo”. Scivolando con un sorriso sull’involontario ossimoro autarchico nella formulazione inglese di un liceo italiano e aspettando con cupida curiosità i contenuti e i limiti dell’Italy, rimane il dilemma su quanto quell’annuncio sia stato suggerito dalla piaggeria di drenare l’entusiasmo del momento o sia invece la metafora del serio proponimento del governo di porre la dovuta attenzione alla centralità della scuola e della formazione, di base e non.

Ma se così fosse, ed è nell’animo di tutti che lo sia, perché non dar principio dall’inizio: preoccupano, infatti, l’abbandono scolastico nel secondo ciclo delle superiori, la disaffezione agli indirizzi scientifici e professionali, la trascuratezza del popolo dei neet, ovvero coloro che non studiano e non lavorano, una contrazione delle iscrizioni ai corsi universitari e non. E quanto ancora potremo differire una profonda riflessione critica sull’impalcatura scolastica ammorbata da una soffocante burocrazia, con piani di studio settoriali e atomizzati, inquinata da una disinvolta politica che la privilegia come terreno elettorale, macchiata dallo scollamento con la realtà imprenditoriale successiva?

Enrico mio, oggi dopo oltre un secolo tutti sono più ricchi e hanno la possibilità di studiare, ma molti non sanno perché lo debbano fare: praticare l’educazione sin dalla più tenera età è l’unica palestra del sapere, il solo addestramento al magistero capace di forgiare le generazioni successive che daranno forma a questo meraviglioso paese. Eppure oggi sembra un’ipotesi assolutamente controvento.

Sergio Cappa

Formazione