Dal Manzoni al coronavirus: la gestione del panico come arte sottile e perversa

“In principio dunque, non peste, assolutamente no per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi febbri pestilenziali: l’idea si ammette per isbieco in un aggettivo. Poi non vera peste: vale a dire si, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente peste, senza dubbio, ma già ci si è attaccata un’altra idea, l’idea del malefizio”

Alessandro Manzoni dedica due interi capitoli de I promessi sposi alla descrizione del “malefizio divino” che ha flagellato Milano e tutta la pianura dal 1629 al 1633 (nella foto, La Peste del 1630, di Antonio Zanchi) e che causò, si stima, più di un milione di vittime su una popolazione italiana di poco più di 12 milioni: oltre l’8 per cento. La confusione e il panico generarono in quegli anni la caccia all’untore (che oggi chiamiamo paziente zero), la paura dello straniero (oggi sono gli italiani che vanno all’estero), le voci incontrollate (oggi sono i presunti “esperti” sui social), i rimedi più balzani (oggi mascherine al prezzo dello zafferano), l’assalto ai panifici (oggi scorte condominiali di acqua e pasta nei supermercati).

Nel Seicento la situazione sociopolitica che avremmo potuto filmare sarebbe stata quella di una successione di villaggi abitati da tribù semplici che occupavano permanentemente lo stesso territorio, con scarso livello d’alfabetismo e bassa organizzazione, il che garantiva alta partecipazione e relativamente buona stabilità politica. La vita quotidiana era percorsa da predicatori che cercavano di individuare le punizioni divine e dettagliare interventi sulle “onde disgrazionali” e la quotidiana stabilità sociale aveva il suo collante nelle credenze, nelle tradizioni e nelle superstizioni. Oggi che il territorio è abitato senza soluzione, con una situazione sanitaria tra le più invidiate al mondo, con una tecnologia laica che ci spiega le nostre idee e “comunica tra Vienna e Chicago in poco meno di un secondo” (Francesco De Gregori, Titanic) e alla quale affidiamo le ansie e i desideri di un futuro sempre più liquido, viviamo lo stesso disorientamento, panico, sbigottimento, trancia, spigola, inquietudine anche se i decessi, a oggi, sono una ventina su una popolazione di sessanta milioni: lo zero virgola; contro, ad esempio, i quasi quattromila casi di tubercolosi in Italia notificati nel 2017 dal ministero della Salute o le decine di migliaia di decessi per tumore da fumo e incidenti stradali e quelli incalcolabili da inquinamento atmosferico. La gestione del panico è arte sottile e perversa. Gianbattista Vico, in quegli anni, scrisse dei corsi e ricorsi della Storia, in costante equilibrio precario tra le fonti. Che segugio.

Sergio Cappa

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